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Beati gli inquieti, il libro di Stefano Redaelli

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Leggendo il bel libro di Stefano Redaelli, (Beati gli inquieti, Neo edizioni) mi sono reso conto che sempre più è valido il pensiero che Boris Vian metteva in prefazione al suo “la Schiuma dei Giorni” e cioè “…. Questa storia è vera perché la ho immaginata, dall’inizio alla fine.” E così entriamo nel mondo dei matti, accompagnati da Antonio che vuole conoscere il loro mondo. Un mondo che sarebbe il nostro, ma non esattamente. I matti, sono persone che deviano dalla norma, e come tutte le deviazioni dalla norma, a partire dai bambini, finendo per i malati di ogni tipo, e da ultimo gli anziani, quelli che più sono prossimi, anche se non sempre è vero, all’ultimo passo, cerchiamo di tenerli lontani dalla norma, cioè noi. La norma di un  mondo sano, bello e produttivo, di cui noi, con tutti i nostri difetti e approssimazioni invece, siamo orgogliosamente parte. Allora mettiamo i bambini in luoghi a loro adatti, gli anziani nelle case di riposo, i matti anche ed è in una di queste residenze che Antonio prova ad incontrare l’altro, il diverso da se, o forse proprio solamente un altro aspetto di se. Come canta Leonard Cohen in Suzanne, i matti toccano il corpo di Antonio con la loro mente, in qualche maniera lo contagiano. I matti che sono solamente una delle nostre facce se non fossimo così protervamente sicuri di avere una sola identità, ma per proteggere la nostra “normalità” siamo spesso obbligati a fingere.

Far finta, anzi, far finta di essere sani, come cantava Gaber, è il nostro stile di vita, col lavoro, le ferie, le cose che compriamo e che definiscono il nostro status agli occhi del mondo,  è la nostra professione di tutti i giorni, sia per pochi estremamente convinti dei loro obiettivi e della loro strada, sia per coloro che qualche dubbio lo coltivano, ad esempio facciamo finta per evitare i conflitti o per altri motivi,

E addentrandosi nel libro torna alla mente la pazzia come ribellione alla società, alla comunità dei normali, o come rifugio eretto dalla mente rispetto ad un danno patito,. era forse pazzo anche il signor Bartleby che semplicemente un giorno dice “Preferirei di no” e  smette di adempiere ai suoi doveri quotidiani.

Antonio, incontra in diverse maniere gli ospiti della “Casa delle farfalle”, un nome estremamente poetico per un posto dove i sani relegano i poveri matti. Antonio scoprirà, fino all’agnizione finale, che i matti così poveri non sono, che sognano, scrivono, dipingono, talvolta vaneggiano, esattamente come molti di noi nel loro quotidiano, e forse ci basterebbe pensare ai nostri comportamenti quando siamo alla guida o in altre circostanze in cui la nostra pazienza viene messa alla prova.  E possiamo tacere di coloro che appaiono matti, ma sono normalissimamente integrati. Coloro che uccidono o angosciano una persona perché sono stati lasciati.

Beati i poveri di spirito, recita il “Discorso della Montagna”, richiamato dallo scrittore nel libro, è necessario andare incontro ai matti, frequentarli fare in modo che siano parte integrante delle nostre comunità, come era una volta, prima che  si inventassero i manicomi e farli beati qui e ora, non nella vita a venire.

I manicomi sono chiusi, rimane la questione dei “pezzi guasti” che non producono e non fanno audience, l’unico criterio di validazione ammesso. Ci necessitano luoghi, come questa clinica, che non è tale, dove le persone seguono una terapia e attraverso l’ordine scandito dagli orari, sveglia, cibo, medicine e altri riti, si cerca di tenere comunitariamente queste persone in vita, ma sempre separate dal resto della comunità. E forse è questa separazione la vera pazzia, la nostra. Così, questi luoghi, anche se non hanno più i letti di contenzione o altri dispositivi, sono comunque dei luoghi separati dove difficilmente qualcuno va a trovarli, si ricorda della loro esistenza. Rimane la domanda finale, ad interrogarci. E voi, a quale classe di geni appartenete?

di Carlo Floris

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