Cultura

Don Beppe e Don Matteo (storia semiseria di due trafficanti: l’uno di libri, l’altro di esseri umani)

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Cosa unisce don 𝐁𝐞𝐩𝐩𝐞 a don 𝐌𝐚𝐭𝐭𝐞𝐨 oltre che essere siciliani?

semplice: tutt’e due vivono da 30 anni indisturbati benché tutti ben sanno dove si trovano, nessuno li cerca.

Tutt’e due vivono mascherati da falso nome (o pseudonimo) e, benché ricercati, fanno ciascuno i “casi” propri senz’esssere disturbati: due fantasmi insomma.

Prima che l’uomo dei miracoli scendesse in campo, non certo per coltivare pomodori o curar le rose, il terreno doveva essere preparato e, se fino ad allora, vi era stata una attenzione particolare verso le nascenti tivvù, cosiddette libere o private, nessuno si poteva render conto di quanto potere potessero conquistare e, addirittura, condizionare intere popolazioni.

C’era da poco il torneo fra Palermo e Catania su chi potesse conquistare il record di morti ammazzati o fatti semplicemente sparire (lupara bianca). Naturalemente ci volevano sia dei complici di bassa lega che imprenditori affermati con tendenze al comando e all’ubbidienza assoluta e totale. Dove l’utile era alto e comune. Se si ammazzava per poche migliaia di lire non era altrettanto facile pianificare senza accordi l’assalto per l’intera Isola, occorreva mano d’opera certa, imprenditori lungimiranti e intelligenti che sapevano rapinare senza lasciare tracce, come per caso aveva già fatto il 𝐌𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐂𝐢𝐚𝐧𝐜𝐢𝐨 che, ciancere aveva fatto a 𝙎𝙖𝙣𝙛𝙞𝙡𝙞𝙥𝙥𝙤 (e qui uno dei tanti riferimenti ai santi) rubandogli il giornale di Catania conn l’aiuto della mafia (non meglio specificata).

Così saltarono antenne, ripetitori e saltò in aria pure la Standa a due passe da don Beppe che per poco non ebbe il primo dei sette infarti.

Ma gli fecero capire che lì il naso non era il caso di ficcarcelo semmai, doveva pensare a quella strana attività di smerciare i libri, che via via diventavano sempre più pericolosi specie quanso erano buoni e aprivano i cervelli alle idee. Perciò contemporaneamente bisognava cercare di conquistare anche le case editrici più importanti che, oltrettutto, possedevano palazzi altrettanto importanti. Come Einaudi in via Biancamano a Torino o quello della Le Monnier a Firenze in via San Gallo, per alcuni riuscì per pochi altri no o almeno, non si sa. Sono così tante le manipolazioni  che si sono perse le tracce. I libri (lo furono anche i giornali, in un tempo lontano) sono pericolosi, la rete, almeno se non la insegnano a usare già dalla più tenera età poteva aiutare sia per gli attentati che per rincretinire le masse coi giochini, le fotine e i gattini: lì ormai spacciare poesia era diventato difficilissimo. Non c’era nient’altro: in pochi anni tutti artisti, ecco perché giornali, rete ma, soprattutto televisioni contavano eccome, specie per la conquista del potere totale.

Invece di dirmi “stai sereno” “riposa”, bisognava che qualcuno lavorasse (come fanno gli artisti studiando ore e ore al giorno). Per sapere poi qualcosa di veramente utile sulla mafia non bastavano neanche tutti gli studiosi di mutamenti storici, politologi, scenziati né le forze dell’ordine, figurarsi poi i politici. Altro che cecità, anche sbattuti davanti a fatti compiuti o anche indagati, ci volevano così tante prove e tanti anni che andavano via prima o andavano in prescrizione eventuali processi lunghi 40 o 50 anni!

Quindi don Beppe scoprì suo malgrado la metafora delle candele. Prima incontrando un operaio che montava pali per la telefonia nei paesini dove, fra l’altro, aveva una vilkla principesca, da operaio appunto, che faceva invidia a quella vista nei documentari su Saddam Hussein e poi dal suddetto Ciancio.

Il fatto è che la Regione siciliana acquistava libri da tante piccole e medie casa editrici per biblioteche inesistenti (ne sarebbero state previste 400) e che finivano negli uffici postali anche dei minuscoli paesini dove comprendevano anche il bar. Quindi? quindi occorreva offrire al funzionario o all’assessore o, magari, all’usciere, quello che alcuni esseri normali chiamano “pizzo” ma che i quei casi si chiamano candele: due candele 20%, 3 candele 30%, queste almeno erano le proporzioni.

Me lo svelò così questo operaio  d’un tempo, oggi onorevole di forza italia. Che forza, eh!

Don Beppe, detto 𝙪 𝙧𝙞𝙘𝙚𝙧𝙩𝙖𝙩𝙪, per il vestire elegante nasce nella città di S. Agata e dell’elefante nel 1914 (fonte Ninetto o Vito Davoli, n.d.r.) da una coppia di fatto non autorizzata (porterà il peso di tale difetto fino alla fine). Dopo una breve colluttazione con un prete pedofilo decide di fuggire dalla Sicilia, trasferendosi prima in Toscana, dove incontrerà un parente abbandonato di nome Dante iniziando a scrivere sotto lo pseudonimo di Camillieri (per un errore dell’impiegata o all’anagrafe). Lo utilizzerà per scrivere una serie di gialli dove il colpevole verrà individuato già nelle prime righe, evitando così lo stress al lettore teso alla sua scoperta.

Dopo l’entrata di Mastella nella sinistra del vostro Paese decide di fondare il primo partito di destra insieme a Pirandello, l’idea primigenia era stata dell’Alighieri (ma all’epoca il poeta aveva ucciso un migrante di sinistra mandandolo all’inferno e non poté quindi costituire un partito).

Don Beppe accumula debiti tanto da dedicarsi allo spaccio di libri; inseguito dai censori e dalla finanza si rifugerà a casa di “Pound” che però è assente, trovandovi solo un depresso Che Guevara che nessuno vuole più tranne Calenda Renzi detti anche di “terzo pilu”.

Cerca di incoraggiarlo leggendogli le proprie poesie ma, ancor più depresso, lo dovrà salvare da un presunto suicidio.

Per sopravvivere è costretto a chiedere all’unico ex compagno di scuola che sa sempre come cavarsela, Casini e, con lui, inventa la notte della follia, il cambio di poltrone, la crisi energetica e, infine, la deriva dei continenti.

Niente da fare, anche il Casini svolta a sinistra e, in pochi anni, si ritrova senza volerlo nuovamente fra preti, democristi e guerre.

Di Beppe Costa

 

Crediti: La foto di Beppe Costa è di Marco Cinque

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