Dalle frontiere guatemalteche, alla realtà di un istituto tecnico professionale, dal viaggio interiore abitato da una babele di voci, alle comunità per minori in conflitto con la legge, “Frontiere visibili e invisibili” è una raccolta di racconti che esplora una geografia umana prigioniera di confini percepibili: linguistici, territoriali, razziali, generazionali, e confini impercettibili creati da una mente prigioniera dei propri condizionamenti. Il mondo di fuori ingiusto, corrotto, il cui principio del divide et impera nutre l’arte della guerra, è una proiezione del mondo di dentro dell’essere umano in perenne conflitto con sé stesso. Come possiamo liberarci dalla condizione claustrofobica che ci mantiene rinchiusi nelle nostre gabbie mentali? Liberarci dal giudizio e accoglierci come siamo, scandagliando l’animo umano,
Paola Carta riconosce che il viaggio esteriore che ogni persona compie durante la vita, ha origine dal viaggio interiore che è venuta a fare per trascendere i propri limiti e i propri confini.
Protagoniste del libro sono sempre le donne (come già nel libro “Zoe e le altre”), testimoni del caos del mondo e del proprio, due poteri perversi che minacciano di privarle dell’autodeterminazione. Solitudine, paura, invisibilità e incompatibilità tra adulti e nuove generazioni, migranti, oligarchie e mafia economica, crescita personale e spiritualità sono le tematiche trattate. L’altro visto come nemico da cui difendersi e non come un essere umano con cui confrontarsi e costruire dialogo.
L’autrice è di Gesico, paese della Trexenta, facilitatrice psicosociale e culturale e operatrice olistica, è esperta in metodologie educative e terapeutiche alternative e nella formazione e gestione di gruppi. Impiega il movimento corporeo, le arti e le pratiche energetiche come ‘strumenti pedagogici’ di auto-osservazione e self-care per promuovere il ben-Essere personale e sociale. Si occupa di tematiche riguardanti la violenza (fisica, psicologica, economica), di criminalizzazione della povertà, genere e intercultura. Si è laureata in lingue a Bologna e specializzata in Brasile nella metodologia del Teatro dell’Oppresso, conduce percorsi laboratoriali sia in Italia sia all’estero. Ha molti anni di esperienza con la cooperazione internazionale (Africa, Centro America e Sud America) come rappresentante paese e coordinatrice di progetti di sviluppo psicosociale, in particolare con popolazioni altamente vulnerabili: bambine e bambini, giovani, e donne vittime di violenza.
“Attraverso i racconti scopriamo che niente avviene per caso nelle nostre vite. Le situazioni che affrontiamo – racconta Paola -, le persone che incontriamo sono Maestre e ci invitano a scendere dal piedistallo per accogliere quello che vogliono insegnarci, perché ogni cosa ha bisogno di essere capita per poter trascendere il vittimismo che ci spinge a trovare sempre fuori di noi la ‘colpa’ di quello che ci accade, per timore a guardarci dentro e prenderci la responsabilità delle nostre azioni. Nessuna e nessuno è speciale o viene esonerato dalle prove e allora è importante aprire le nostre frontiere difensive e prenderci cura delle nostre vulnerabilità che sono quelle di tutti gli esseri umani”.
Ricorre spesso nei racconti di Paola Carta il tema del nostro mondo ingiusto e corrotto, prodotto del neoliberismo.
“Siamo nelle mani di una piccola élite ricchissima che vuole farci credere che l’unica alternativa per far vivere la ‘democrazia’ è fare le guerre preventive. La razza bianca è quella più avida e, per paura di perdere i sempre maggiori privilegi, si arrocca nei propri confini, costruisce muri, piazza fili spinati, perché nessuno venga a rubare quello che si è riuscito a usurpare con tanto inganno, corruzione e poca vergogna: homo homini lupus. Abbiamo naturalizzato la violenza, siamo assuefatti a tutti i tipi di crudeltà, non sappiamo più a chi credere e cosa credere, abbiamo meno libertà, le nostre menti sono sotto controllo da decadi, indotti a un lavaggio del cervello continuo grazie alle armi di distrazione di massa, come qualcuno le chiama. Siamo inondati da informazioni ‘spazzatura’ e dalla pubblicità che ci vuole consumatori ossessivi. E noi siamo i fortunati, ci sono milioni di persone che muoiono ancora di fame, muoiono di dissenteria perché non hanno l’acqua potabile, ma per noi occidentali queste sono situazioni troppo distanti per sentircene coinvolti. Qui in occidente siamo sempre più individualisti, infantili, egoisti, frustrati, razzisti, e viviamo in solitudine, perché non abbiamo amici, non ci fidiamo di nessuno, non riusciamo a condividere, a socializzare. I cellulari ci hanno rubato lo stare insieme”.
Altro tema ricorrente nel libro dell’autrice, è quello di trovare il coraggio di vivere fuori dagli schemi, resistere all’omologazione, promuovere l’atto di speculare, di porci domande esistenziali, chiederci il perché delle cose. “Chi lo fa – evidenzia con decisione -, chi sceglie di non essere consumista, spegne la televisione, prende con le pinze tutto ciò che il sistema vuole farle/gli credere, chi sceglie di resistere, vive nel dubbio ed è tormentata/o dalle voci interiori: ‘Davvero credi di poter cambiare le regole del gioco? Chi ti credi di essere? Vedrai che prima o poi tornerai sui tuoi passi e farai quello che fanno tutti’.”
La paura è un altro tema che si infiltra in tanti racconti. Paura fisica e psicologica, il senso di pericolo delle frontiere, il migrante che scappa da condizioni disumane, per fame, violenza, guerra, affrontando un viaggio terrificante per vedersi poi chiudere le porte in faccia, o essere fatto schiavo, violentato, disumanizzato.
“In uno dei racconti tratto il tema dei migranti in Sardegna – rammenta l’autrice -. La nostra è una terra di emigrazione, ancora ci troviamo costretti a emigrare per mancanza di lavoro, per povertà, ma manca l’empatia verso chi arriva ed è povero. Soffriamo ancora la sindrome del continentale istrangiu ricco, potente, furbo, certo meglio di noi, ma su istrangiu povero non lo vogliamo perché viene a rubarci il lavoro. Io pure sono una migrante, ho vissuto la maggior parte della mia vita fuori dalla Sardegna, sono testimone della povertà e la fame che si vive in Africa, in America Latina dove ho lavorato. Ora vivo di nuovo in Sardegna da qualche anno e il ritorno non è stata una passeggiata, ma proprio grazie alle difficoltà incontrate, soprattutto in campo lavorativo, sto imparando a non giudicare, a non essere più intollerante verso quella che sembra una forma di apatia o meglio di fatalismo sardo “Tanto le cose non cambieranno mai” si sente dire spesso. Ora comprendo meglio certi comportamenti diffidenti, circospetti. Il lavoro sporco che si è fatto, e si continua a fare in Sardegna dai poteri forti, è sottile e quasi invisibile. Ci vogliono divisi, separati, invidiosi, per continuare a usare la nostra terra come discarica di rifiuti tossici, servitù militari e ora il disastro ambientale e culturale delle pale eoliche nuova speculazione mafiosa in atto. Mi addolora lo stato delle cose. Quando sono qui tornano a galla tutte le mie vecchie paure di non essere capita, temo il giudizio altrui, e allora ripiombo nel ‘cinghialismo’, ridivento un po’ selvatica, mentre desidero tanto contribuire al cambiamento. Mi sforzo per portare avanti i miei laboratori di Teatro dell’Oppresso che in questo momento sarebbero perfetti per creare incidenza politica e denunciare il modo vergognoso in cui viene usata la nostra terra. Insomma vorrei riuscire a fare quello che facevo nel Sud del mondo negli ultimi anni: dare voce all’ingiustizia attraverso le arti, portare in scena la dignità dell’essere umano, in questo mondo disumano e crudele”.
Lavorare con il genere umano è la passione di Paola: indagare, osservare, trovare le ‘faglie’ che permettano una breccia verso il mondo interiore ferito, sia di chi riceve aiuto sia di chi lo dà.
Chi si ‘mette a servizio’ degli altri assume un ruolo che, a volte, si cristallizza: la persona diventa il ruolo, avvinghiata alle proprie idee, credenze, teorie, perde o si dimentica della propria ‘umanità’.
“Non sono amante dei ruoli e dei titoli che mi definiscono, mi etichettano, non è la professione che mi ‘nobilita’ e come tutte e tutti anche io sono fragile e vulnerabile, ma credo nella mia possibilità di evolvere. Un messaggio di speranza verso un nuovo essere umano e quindi un nuovo mondo possibile, permea infatti tutto il libro. Un invito a trovare il coraggio di liberarci dai condizionamenti e dai preconcetti, ad accoglierci per quello che siamo, rispettarci e accettare la nostra diversità e quella degli altri per imparare a vivere in comunione e non in colluttazione, opponendoci a questo clima militarista, a questa deriva imperialistica e autoritaria delle oligarchie liberali. Cresce il dissenso in tutto il mondo, e allora dovremmo abbandonare le nostre identità particolari, dovremmo unirci, costruire ponti di connessione e partecipazione per il bene comune”.
Paola Carta ama raccontare storie, ha una spiccata immaginazione ed è molto curiosa.
“Ricordo da piccola quanto mi piacesse ascoltare le storie dei grandi. Mio nonno paterno era un poeta e un cantautore, da giovane andava a cantare in giro per i paesi dei dintorni con suo fratello. Suo figlio, mio zio, anche lui poeta, partecipava alle gare poetiche (ndr: sa battorina sarda). Mio padre scriveva fatti di cronaca e amava raccontare storie e barzellette. L’ironia non mancava in nessuno di loro e credo di averla ereditata, nonostante le tematiche da me trattate invitino alla riflessione e alla presa di posizione. Il fratello di mia madre invece raccontava sempre di ‘spiriti’, di fantasmi, anche questo genere di racconto mi affascinava molto, nonostante la paura. Era una connessione ad altre dimensioni e anche questo non manca nella narrativa sarda e io pure parlo di altre dimensioni dell’essere, di viaggi interiori in altri mondi”.
Il genere ‘racconto’, che ha appunto origine dalla letteratura orale, è come un interscambio di saperi: da ogni storia raccontata impariamo qualcosa, ma non necessariamente deve contenere una ‘morale’.
“E poi tutti abbiamo bisogno di raccontarci ‘Ci potrei scrivere un libro sulla mia vita’, quante volte l’abbiamo sentito dire? E tutti abbiamo bisogno di essere ascoltati in questo mondo distratto in cui l’attenzione verso l’altro, o verso qualsiasi cosa, dura al massimo un nanosecondo e si passa subito a un nuovo reel, una nuova stories, un nuovo post, siamo drogati fisicamente e psicologicamente dalle nostre ‘appendici elettroniche’”.
“Frontiere visibili e invisibili” è pubblicato dalla Multimage la casa editrice dei diritti umani.
“Un vero onore per me esserne stata accolta. Mi sento in sintonia con ciò che pubblica e per quello in cui crede. La Multimage mira a diffondere l’Umanesimo Universalista, valorizzando i diritti umani, la pace, la nonviolenza, l’inclusione, la diversità, l’economia solidale e la spiritualità. Cosa potevo aspettare di meglio? Sono le tematiche che mi accompagnano da sempre. Sono contenta di questo incontro”.
di Massimiliano Perlato
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