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La storia di Nicola Baraglia, da Iglesias alla Mostra del Cinema di Venezia

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Ci sono storie che vanno raccontate, non tanto per dovere di cronaca o perchè costituiscano notizia. Sono storie di uomini, spesso dietro le quinte, che attraverso l’occhio di una telecamera o una macchina fotografica dialogano con il mondo, danno voce e volto alla vita, si fanno portavoce delle vicende quotidiane che probabilmente rimarrebbero nascoste ai più.

 

Oggi racconteremo una di queste storie, quella di Nicola Braglia, nato ad Iglesias nel profondo Sulcis, terra di miniere, di fatica e di lotta. Nicola è un videomaker con un background insolito, un percorso di continua scoperta che l’ha portato ad essere uno dei giovani documentaristi più apprezzati nel nostro paese, scoprendo questa passione durante la sua formazione.

Comunicare meditando potrebbe apparire un ossimoro, se non si conoscesse Nicola Baraglia e la sua capacità narrativa, fatta di silenzi figli dell’empatia, in grado di cogliere la giusta inquadratura “sentendola” ancor prima di vederla con lo sguardo.

Parleremo con lui di progetti, passati e futuri, della sua formazione e dell’ultimo traguardo, il progetto di un documentario sul grande Pupi Avati, prodotto dallo IULM, che verrà proiettato il 7 Settembre in anteprima alle Giornate degli Autori, nell’ambito del 78° Festival del Cinema di Venezia.

I progetti passati e futuri di Nicola Baraglia

Come è nata la passione per questo mestiere e come sei diventato un Videomaker professionista?

Tutto è partito non come solitamente  tutti raccontano o piace raccontare, cioè che mi hanno regalato una cinepresa quando avevo 6 anni etc…sarebbe falso. La passione è nata quando ero già grande, dopo un mio percorso un po’ burrascoso durante l’adolescenza, quando maturai la decisione di iscrivermi ad un corso di laurea in Scienze della Comunicazione. Qui ho intercettato un po’ di esami inerenti al cinema, ai linguaggi del cinema, con il docente Antioco Floris, e proprio in quell’anno crearono due laboratori di ripresa e di montaggio (video). Quindi con molta curiosità, perchè il mondo della fotografia mi aveva sempre affascinato senza aver fatto grandi cose, ero pure appassionato di informatica e nonostante avessi scaricato alcuni programmi di montaggio poi non feci nulla, iniziai il mio percorso personale. Dopo aver partecipato a questi corsi è scattato subito qualcosa, sia sulla fase di ripresa che di montaggio. Venni infatti notato sia da Andrea Lotta che teneva il corso sia dal professor Floris. Il finale del corso consisteva nel mandare un paio di studenti per realizzare un reportage al Festival della Fiction a Roma. Fatto il reportage vincemmo un premio. Così, partendo con un grande risultato, pezzo dopo pezzo questa esperienza la portai nella mia prima tesi di laurea e, dopo, ci sarebbero stati una serie di percorsi che definirono quello che faccio tuttora. Feci anche un master in restauro degli audiovisivi, specialmente legati ai supporti più comuni come il Super 8 e vhs. Sentivo perciò che la passione continuava a crescere e volevo finire il mio percorso con qualcosa che mi desse degli strumenti per essere autonomo nel raccontare le immagini. Quindi essere sia filmaker che autore dei miei lavori. Così sono finito allo IULM di Milano dove avevo potuto mettere in pratica quanto appreso precedentemente nel master. Avevo realizzato, usando diversi Super8 di mio padre e di un suo amico, sotto forma di audiovideo, un pezzo della sua storia, inerente alle lotte fatte nel territorio suscitano per l’istituzione del parco Geominerario. Con mia sorpresa il lavoro fece impazzire i professori di regia dell’università e, tra l’altro, presi il massimo dei voti negli esami inerenti la regia e il montaggio.

Quali sono i lavori più importanti che hai realizzato prima di arrivare all’ultimo di cui parleremo dopo?

Tra i più importanti abbiamo In Utero Srebrenica,  realizzato insieme ad un ragazzo conosciuto allo IULM che mi coinvolse nel suo progetto che stava nascendo: una casa di produzione. In 4 avevamo fatto questo lavoro di medio metraggio che vinse poi diversi festival tra cui il Bellaria Film Festival, Al Jazeera film Festival, il Festival dei Diritti Umani a Ginevra. Quindi è stato un apripista perchè ci ha permesso di continuare a fare documentari e proporre dei lavori. Come il progetto di Repubblica Tv,  per la quale avevamo fatto una serie sugli italiani all’estero. In questo modo mi sono aperto al mondo del viaggio, del documentario, per scoprire altri mondi; così facendo ho avuto la fortuna di incontrare la dimensione delle eccellenze italiane all’estero, una serie che girammo per Marcopolo. Successivamente abbiamo creato delle serie proposte da noi, “Appunti sulla felicità”, per Tv 2000, per la quale ero stato in Afganistan con l’associazione Pangea, la cui collaborazione prosegue ancora oggi.

Riallacciandomi ad alcuni tuoi lavori, se non erro avevi creato un lavoro su commissione per la Fondazione Feltrinelli, vero?

Esattamente, quella è stata la mia prima regia di un documentario. Forse si ricollega pure al lavoro che avevo fatto su mio padre, perchè il progetto per Feltrinelli trattava una data significativa, quella del 1° Maggio, la festa dei lavoratori. In occasione di quella data la Fondazione aveva messo in scena uno spettacolo con un artista della danza, Virgilio Sieni. Io nei i mesi precedenti seguii le prove dello spettacolo, ripredendo anche nella vita privata alcune delle persone che si erano iscritte per partecipare alla performance. È stato un doppio lavoro, quello sulla performance vera e propria e quello incentrato sulla vita lavorativa dei partecipanti. Un progetto costruito anche grazie ad un lavoro di intreccio con gli archivi della Feltrinelli legati alle lotte operaie.

In questi due anni di pandemia, come è stato per uno come te abituato a stare sul campo, tra persone e luoghi, vivere chiuso in casa senza poter esprimere la tua arte?

È un po’ collegato agli ultimi due lavori fatti, uno che ho presentato questa estate all’Andaras Film Festival (Fluminimaggiore), girato a Febbraio 2020. Siamo rientrati in Italia verso la fine del mese, intorno al 20 credo, quando ormai era in circolo la pandemia, la Cina veniva ancora vista come nazione di “untori” e qui in Italia non era scoppiato il focolaio di Codogno. Perciò il primo mese di pandemia l’ho trascorso lavorando al montaggio del documentario sull’India; ero a casa ma non avendo lavorato ad un progetto di documentario da tanto, la mia testa era tra il monitor del pc e l’India, concentrato. I mesi successivi, invece, sono stati quelli del crollo, perchè hanno cancellato tutti i lavori che avevo in programma, sarei dovuto andare a Tokyo per un progetto sulle Olimpiadi. È stato un colpo non poter più vedere quello che vedevo prima, abitando poi al piano terra della mia casa vedevo il mondo attraverso le inferriate delle finestre; per me che ero abituato a vedere tante immagini in quel momento vedevo tutto attraverso il filtro delle mie finestre, è stato orribile. Poco prima di partire in India avevamo girato la prima parte del Documentario su Pupi Avati, la parte relativa a Bologna. Poi ovviamente il grande stop. Abbiamo ripreso con la seconda parte del lavoro, a Roma,  solo quando tutto ha iniziato a normalizzarsi in estate.

A questo punto parliamo del tuo ultimo progetto, il documentario sul regista Pupi Avati dal titolo “Vorrei Sparire Senza Morire”.

L’ultimo lavoro è un progetto sperimentale, che parte sempre dall’università, in questo caso è quella dove ho fatto la specialistica, cioè lo IULM. Tutto parte da un laboratorio universitario che si chiama IULM Movie Lab, creato dal Rettore che è anche uno dei massimi critici cinematografici italiani, Gianni Canova. Mi propose questo progetto, dicendomi di aver sentito il regista Pupi Avati, per creare un racconto non tanto sui suoi film, probabilmente era già stato fatto, ma qualcosa di più intimo che potesse raccontare la sua storia. È arrivato il momento di rompere i soliti schemi che vogliono documentari o gli speciali che vediamo in tv dove mostrano solamente la filmografia, o dove un attore parla solo di lui. L’idea era di fare qualcosa di diverso, sperimentale. Raccontiamo chi è, cosa ha vissuto, i suoi successi e i suoi insuccessi. Così, nasce, in questo laboratorio, affiancato da una troupe molto ridotta composta da una studentessa che si stava laureando, pure questo molto sperimentale, mettendo insieme un ex studente che aveva accumulato un po’ di esperienza nel campo dei documentari con uno studente universitario. La produzione era legata all’università, curata da Hilary Tiscione, altra ex studentessa che lavora per l’università, più un fonico. Nasce così “Vorrei Sparire Senza Morire”, un racconto di Pupi Avati, per il quale ci siamo sentiti di non scrivere la classica dicitura “regia di”, perchè è un racconto talmente intimo, talmente personale, che seppur condotto da noi con le domande, avendo letto prima la sua storia, la biografia, prendemmo questa decisione. È venuto poi tutto talmente naturale, grazie ai suoi racconti e alle sue parole, strutturare una narrazione di medio metraggio, perchè si tratta di quasi 50 minuti. Siamo partiti quindi dalle sue origini, per la prima trance di riprese sono stati due o tre giorni tra Bologna e Sasso Marconi, dove lui era nato. Proprio la prima scena che abbiamo girato è stata dentro il cimitero di Sasso Marconi, credo una delle scene più forti, dove lui ha raccontato quali fossero le radici del suo cinema gotico. Infatti raccontava: “qui in questo piccolo cimitero dove ci saranno 50 tombe c’è l’origine del mio cinema, perchè le mie nonne avevano un rapporto particolare con la morte”. Nel suo racconto riaffioravano tante scene viste nei suoi film come La casa delle finestre che ridono e in tanti altri suoi film. Ha quindi raccontato i suoi lavori all’interno della sua storia, con aneddoti di vita che facevano parte più del suo passato che non dei racconti dei suoi set cinematografici.

Arriviamo quindi alla fine di questa chiacchierata: il documentario su Pupi Avati verrà proiettato il prossimo 7 Settembre dal 78° Mostra del Cinema di Venezia in anteprima alle Giornate degli autori. È questo più un punto di partenza piuttosto che uno d’arrivo?

Sicuramente quando abbiamo iniziato il progetto non mi sarei aspettato un giorno di ricevere la chiamata “Siamo al Festival di Venezia! (Pausa)..perché era, appunto, un lavoro molto sperimentale. Quindi sono rimasto piacevolmente colpito e, come dici tu, non lo prendo certamente come un punto d’arrivo perchè ho tanti progetti da realizzare, per ripartire dopo questo lungo periodo di pandemia. Probabilmente alcuni i lavori su commissione che ricevo dalle agenzie verranno messi da parte per dedicarmi, nel futuro, alle sensazioni ricevute proprio con il documentario su Avati. Desidero proprio dedicarmi a racconti che siano più vicini alle mie corde. Come è stato quello sull’India, per esempio, spostandomi quindi dai lavori più commerciali, magari tenendone solo una minima parte e incentrandomi di più sul racconto documentaristico magari riprendendo il filo con la narrazione sulla Sardegna.

Non ti chiedo, come di rito, quale sarà il tuo prossimo progetto futuro. Vorrei però sapere quale progetto vorresti realizzare con tutte le tue forze.

La cosa che vorrei realizzare, ed è un progetto per il quale non aspetterò di reperire fondi, perché sento proprio l’urgenza di raccontare, è continuare a raccontare la storia della Sardegna legata però alla mia famiglia. Ho già raccontato un pezzo di storia, legata a mio padre e alle sue lotte operaie, però vorrei provare a raccontare la parte sulla storia di mia madre, nata ad Arenas e poi spostata ad Acquaresi, un vecchio villaggio minerario oggi abbandonato. Raccontare un alcuni dei temi che sono a me cari, senza però avere necessariamente delle commissioni e delle imposizioni. Vorrei essere libero, come ho fatto con “Pietra nera”.

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