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Persone, strade, storie. Il progetto di Claudia Corrias racconta gli istanti di vita in cammino

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La fotografia è un atto di testimonianza. Fotografare è trattenere il respiro davanti alla realtà che fugge, sosteneva uno dei gradi maestri della fotografia, Henri Cartier-Bresson. È vero, è testimonianza (oltre a tanto altro) che permea la realtà senza distogliere l’attenzione sul significato, è l’attimo fuggente che merita di essere colto. Nell’era del digitale, dove l’immagine assume un valore quasi dogmatico (fotografo, dunque, sono), spesso, lo scatto racconta la banalità dell’epoca in cui viviamo, non tanto perchè non esistano motivi per fotografare, ma solo per il fatto che spesso non abbiamo nulla da dire ma lo diciamo: un post, un parere, uno scatto fotografico senza considerare un punto di vista diverso su una questione.

Per questo motivo, quando mi imbatto in progetti come quello della fotografa Claudia Corrias, originaria di Iglesias, ritrovo quel linguaggio universale che appartiene a questa forma artistica, quello spirito di ricerca che non si limita a guardare solo coi propri occhi ma a vedere con lo sguardo di tanti, dove narrazione e soggetto si fanno esperimento sociale. Un percorso come quello realizzato dalla fotografa iglesiente – La Vita in Movimento: Il Pendolarismo tra Iglesias e Cagliari attraverso il metodo Photovoice – diviene, perciò, megafono per tutti coloro che non hanno voce ma meriterebbero di essere ascoltati.

Questo progetto è diventato una mostra, ma resta anche il racconto di un mondo, quello dei pendolari, che avrebbe tanto da dire e meriterebbe di essere ascoltato: scopriamolo attraverso le parole dell’autrice.

1.“La vita in Movimento”: ci puoi spiegare come è nato questo progetto e di cosa si tratta?

Il progetto “La Vita in Movimento: Il Pendolarismo tra Iglesias e Cagliari attraverso il metodo Photovoice” ha iniziato a prendere forma due anni fa, durante la mia partecipazione al XIX Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia per le Organizzazioni, a Cagliari. In quell’occasione sono emerse riflessioni che mi hanno colpita profondamente e che mi hanno portata a guardare con occhi nuovi un’esperienza che vivevo ogni giorno: quella del pendolarismo tra Iglesias e Cagliari. È stato lì che si è accesa una scintilla. Da tempo nutrivo un forte interesse per la fotografia come strumento espressivo e avevo approfondito il metodo Photovoice, che mi aveva affascinata per il suo potenziale umano e trasformativo.

Il Photovoice è un approccio di ricerca partecipativa nato negli anni ’90 grazie a Caroline Wang e Mary Ann Burris, inizialmente pensato per dare voce a donne delle aree rurali in Cina. Da allora è stato utilizzato in tutto il mondo per consentire alle persone di raccontare la propria realtà attraverso le immagini, stimolando una riflessione collettiva e, in alcuni casi, influenzando anche le politiche pubbliche. Nel mio caso, ho voluto usare questo metodo per esplorare cosa significa viaggiare ogni giorno in una terra complessa e frammentata come la Sardegna. Ho pensato che potesse essere uno strumento potente per dare voce ai pendolari, per far emergere emozioni, disagi, bellezza, e trasformare tutto questo in una narrazione condivisa. È stato così che ho ideato e condotto un laboratorio partecipativo, coinvolgendo tredici persone tra studenti, lavoratori e cittadini, con esperienze diverse ma accomunati dal viaggio quotidiano in treno. Il progetto si è articolato in più incontri, durante i quali abbiamo riflettuto, condiviso fotografie, raccontato vissuti, analizzato immagini e costruito insieme proposte per migliorare la qualità del viaggio e del tempo trascorso in movimento. Ogni foto è diventata una storia, ogni racconto un tassello di un’esperienza collettiva.

Alla fine, abbiamo voluto restituire tutto questo alla comunità attraverso una mostra pubblica, in modo che anche chi non ha partecipato potesse vedere con occhi nuovi ciò che accade ogni giorno lungo quei binari. Un supporto decisivo è arrivato dalla mia relatrice, Prof.ssa Oriana Mosca, docente e ricercatrice in Psicologia Sociale all’Università di Cagliari, la cui competenza e passione hanno reso possibile trasformare un’idea in un progetto concreto e significativo. È grazie anche al contesto universitario che questo progetto ha potuto svilupparsi in modo così solido, unendo ricerca, formazione e impatto sociale. “La Vita in Movimento” rappresenta infatti il cuore della mia tesi magistrale in Psicologia Clinica e di Comunità, un lavoro che unisce il mio percorso accademico con la mia visione personale e professionale.

Fondamentale anche il sostegno del Comune di Iglesias, grazie al patrocinio e all’impegno dell’Assessora alle Politiche Sociali, Dott.ssa Angela Scarpa, che ha creduto nel valore sociale dell’iniziativa e ne ha reso possibile la restituzione pubblica attraverso la mostra finale. “La Vita in Movimento: Il Pendolarismo tra Iglesias e Cagliari attraverso il metodo Photovoice” non è stato solo un progetto fotografico o una ricerca accademica. È stato, per tutti noi, un percorso umano e trasformativo, capace di dare valore a ciò che spesso resta invisibile: le emozioni, i pensieri, i piccoli gesti di chi ogni giorno attraversa spazi di passaggio che sono, in realtà, pieni di senso.

2.Perchè hai deciso di realizzare un progetto che coinvolgesse altre persone?

Credo profondamente che le persone siano la vera ricchezza di questo mondo. Sono loro, con le loro storie, emozioni e prospettive, a dare significato a ciò che facciamo. Ho sempre lavorato a stretto contatto con le persone, sia nei miei progetti fotografici che nel mio percorso professionale, e ogni incontro per me è un’occasione per imparare, ascoltare e crescere. Il confronto umano è ciò che più mi arricchisce: come psicologa cerco di cogliere l’essenza di chi ho davanti, e come fotografa tento di restituirla con uno sguardo sincero. In entrambe le dimensioni, ciò che mi guida è il desiderio di creare connessioni autentiche, capaci di generare comprensione, bellezza e senso.

3.Ritieni che la fotografia possa avere anche una funzione sociale (oltre a tutte le altre già note)?

Assolutamente sì, credo che la fotografia abbia una potente funzione sociale, spesso sottovalutata. Oltre al suo valore estetico, documentaristico o personale, la fotografia può diventare uno strumento di consapevolezza, di denuncia, di dialogo e di trasformazione. Attraverso le immagini possiamo raccontare storie che altrimenti resterebbero invisibili, dare voce a chi non ne ha, sensibilizzare su tematiche importanti e creare ponti tra mondi diversi. In particolare, progetti partecipativi come il Photovoice dimostrano quanto la fotografia possa diventare un mezzo per far emergere vissuti, criticità e bisogni collettivi, stimolando una riflessione condivisa. In questo senso, la fotografia non si limita a rappresentare la realtà: può contribuire a cambiarla, offrendo uno spazio in cui l’individuo e la comunità si incontrano per generare significato e azione.

4.Facendo un passo indietro, quando hai iniziato ad usare la macchina fotografica come strumento espressivo?

Perché mi sono sempre sentita a casa, e perché penso che scattare una fotografia ti dia modo di esprimere liberamente ciò che vuoi, senza giudizio e senza moralismi. È un atto liberatorio.

5. Tra i grandi fotografi, c’è qualcuno che ha ispirato particolarmente il tuo modo di inquadrare il mondo?

Sono legata a molti “punti di vista”, come mi piace chiamarli. Mi sono sempre appassionata al lavoro di Ferdinando Scianna, per il suo modo realistico e potente di raccontare il mondo. Amo profondamente anche Letizia Battaglia, non solo per la sua visione della vita, ma perché mi sono sempre riconosciuta in lei come donna e come testimone della realtà. Ho sempre ammirato il suo coraggio e la sua forza: per me è un’artista straordinaria. Un altro autore che sento molto vicino è Gianni Berengo Gardin, perché riesce a raccontare la vita con una sensibilità unica. E poi Sebastião Salgado, che ci ha lasciati recentemente: il suo sguardo poetico sul mondo mi ha sempre profondamente colpita. Amo moltissimo anche Annie Leibovitz, una ritrattista eccezionale, capace di mettere il cuore in ogni progetto. Ogni suo scatto è ricco di umanità e intensità, e la sua visione è davvero unica. 

E poi Nan Goldin, che ha la capacità straordinaria di afferrare la realtà più cruda e mostrarcela senza filtri, con una potenza emotiva che lascia il segno.

6.Un tempo fotografare era un gesto riservato a pochi, soprattutto nell’era analogica, mentre oggi con smartphone e l’avvento del digitale, la fotografia sembra essere un gesto ripetitivo, seriale, di moda, appiattendo parecchio la qualità. Qual è il tuo parere sulla fotografia, oggi?

Credo che oggi la fotografia sia diventata uno strumento estremamente accessibile, e questo ha senza dubbio un valore positivo: è più democratica, più inclusiva, permette a chiunque di raccontare la propria visione del mondo. Tuttavia, questa diffusione capillare porta con sé anche alcune criticità. Viviamo immersi in un flusso continuo di immagini, scattate spesso senza riflessione, quasi in modo compulsivo. Questo rischia di appiattire la qualità e il significato della fotografia, trasformandola da forma d’arte o testimonianza in un gesto meccanico, consumabile all’istante e subito dimenticato. Come scriveva Susan Sontag, “con l’aumento delle immagini, assistiamo a un declino della nostra capacità di reagire emotivamente ad esse.” Siamo talmente abituati a vedere tutto che finiamo per non sentire più nulla. Ecco perché oggi è ancora più importante coltivare uno sguardo consapevole, attento, capace di andare oltre la superficie. La fotografia ha ancora un potere enorme, ma solo se siamo disposti a concederle tempo e attenzione. Spesso sono proprio i progetti più silenziosi, quelli che non cercano il clamore, a portare con sé le storie più autentiche e il valore umano più profondo. Dobbiamo imparare a riascoltare queste “voci visive” più intime e meno vistose.

7.Hai in cantiere altri progetti per il futuro? se si, quali?

Sì, ho in mente diversi progetti per il futuro. Uno in particolare mi sta molto a cuore: raccontare la nostra terra in modo autentico, nella sua verità quotidiana. Spesso della Sardegna viene mostrato solo il lato più bello e patinato, quasi da cartolina, ma la realtà è molto più complessa — fatta anche di difficoltà, contraddizioni e una bellezza più discreta, spesso nascosta. Come fotografa e psicologa, sento il bisogno di restituire uno sguardo che sia insieme estetico ed empatico, capace di cogliere non solo ciò che si vede, ma anche ciò che si sente. Vorrei portare avanti questo progetto insieme al mio compagno, che è fotografo e videomaker: condividiamo la stessa sensibilità e lo stesso desiderio di raccontare storie autentiche, dare voce a ciò che spesso resta ai margini. Insieme abbiamo già avviato “Unconventional Sardinia”, un progetto che per noi ha rappresentato un inizio importante.

Ora ci piacerebbe proseguirlo con uno sguardo più maturo, arricchito anche dalle competenze psicologiche che introduco nel mio lavoro e nella relazione con le persone che incontriamo. Nel frattempo, “La vita in Movimento” continua il suo percorso: dopo la prima esposizione a Iglesias, la mostra sarà prossimamente allestita anche a Cagliari. Stiamo lavorando con entusiasmo all’organizzazione, perché crediamo profondamente nel potere delle immagini come strumento di ascolto, riflessione e connessione.

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