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Sergio Givone – Tra il male, la bellezza e il senso: La filosofia come atto di rinascita

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In un’epoca rumorosa, in cui la parola “pensiero” rischia di restare soltanto un suono piacevole, la figura di Sergio Givone appare come un invito a fermarsi, ad ascoltare, a comprendere. Il filosofo italiano, nato a Buriasco vicino a Torino nel 1944, ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca del senso del male, del vuoto e della salvezza attraverso l’arte. In un mondo che sembra credere più alla macchina che al pensiero, Givone ci ricorda che la metafisica non è un lusso, ma una necessità: un modo per restituire significato alle cose.

Nell’Italia del dopoguerra, dove la filosofia prese spesso direzioni politiche o strutturaliste, Givone scelse una terza via: quella di una filosofia silenziosa, poetica, in cui il pensiero nasce dal confronto con l’abisso.
Egli ha definito questo percorso come una “filosofia del male” – non soltanto nel senso morale, ma come tentativo di comprendere ciò che l’uomo non può evitare: il dolore, la morte, il vuoto.

Nel suo libro più noto, Storia del nulla, Givone segue le tracce del “nulla” dalla filosofia greca antica fino a Nietzsche e Heidegger, mostrando che il vuoto non è la fine del senso, ma l’inizio di una nuova ricerca.
Proprio qui si manifesta la sua inclinazione verso un idealismo sobrio – un idealismo che non nega la tragicità dell’esistenza, ma cerca di illuminarla con la luce del significato.

In questo senso, Givone è un filosofo che, con tatto e calma, tende verso l’idealismo mantenendo tuttavia una tensione costante con l’esistenzialismo.
Egli si confronta “dolcemente” con esso, soprattutto con l’esistenzialismo di Kierkegaard, che fa dell’angoscia il fondamento della fede. Per Givone, l’angoscia non è necessariamente l’unica via verso la salvezza; egli crede che esista un altro modo per affrontare il vuoto: attraverso la bellezza e la parola poetica.

Uno degli aspetti più profondi del pensiero di Givone è il suo rapporto con Martin Heidegger e il poeta ebreo Paul Celan. Mentre molti filosofi leggono Heidegger solo sul piano ontologico, Givone vi cerca anche una dimensione estetica: la poesia come modo per ritrovare il senso dopo l’esperienza del male assoluto. Osserva che Celan, attraverso la poesia, giunge là dove la filosofia si arresta – in quello spazio oscuro in cui la parola non spiega, ma salva. Così, per Givone, la poesia diventa un atto metafisico, la forma più alta di comprensione umana: non per dare risposte, ma per mantenere viva la domanda.

In una delle sue lezioni a Firenze, Givone affermava che “la poesia è il modo più profondo per non dimenticare”. Quest’idea attraversa tutto il suo pensiero: di fronte alla peste, al vuoto o al dolore, l’uomo non ha bisogno di spiegazioni, ma di memoria – per trasformare il dolore in senso.

A modo suo, Givone è anche un lettore instancabile di letteratura.
Egli vede la filosofia come un dialogo infinito con gli scrittori che hanno saputo toccare i confini dell’anima. Con Dostoevskij, senza entrare nel problema complesso dell’antropologia russa, condivide l’idea che la sofferenza possa trasformarsi in luce, che sotto l’oscurità si nasconda qualcosa di salvato.
Da Albert Camus eredita la rivolta contro l’assurdo, ma la supera attraverso l’estetica: invece di “insorgere” contro l’assurdo, Givone propone di trasformarlo in poesia, di renderlo sopportabile grazie alla bellezza.
Da Nietzsche assume l’idea che l’arte sia la forma più alta della vita, ma rifiuta il nichilismo puro, convinto che il senso non nasca dalla distruzione, bensì dallo sforzo di comprendere anche la distruzione stessa.

Questa triade – Dostoevskij, Camus, Nietzsche – costituisce, in un certo senso, il “letto dell’anima” su cui Givone costruisce la propria filosofia.
In essi trova la tragedia, la rivolta e il desiderio di luce: tre dimensioni che aiutano l’uomo contemporaneo a non perdersi nella propria oscurità tecnologica.

In un tempo in cui gli algoritmi conoscono i nostri gusti meglio di noi stessi, Givone ci ricorderebbe che la comprensione non può essere meccanizzata. La filosofia, secondo lui, non è un apparato che produce risposte, ma un viaggio che suscita domande. E in questo senso egli si oppone, in modo silenzioso, alla cultura odierna che crede che “tutti abbiano ragione” – una cultura che confonde il pensiero con l’opinione. Per Givone, la verità non è una questione di maggioranza, ma di profondità. In un mondo di macchine, dove tutto si misura, si analizza e si classifica, il filosofo cerca di restituire la metafisica necessaria delle cose – quella sensibilità interiore che distingue il vero dall’illusorio, la parola semplice dalla parola che salva.

In questa luce, egli vede la filosofia come un atto di resistenza spirituale, un modo per non dimenticare che dietro ogni numero, dietro ogni algoritmo, c’è l’uomo con le sue domande eterne. Al centro del pensiero di Givone si trova l’estetica – non come teoria dell’arte, ma come modo di vivere.
La bellezza, per lui, non è ornamento del mondo, ma la sua salvezza.
Non ci libera dalla sofferenza, ma ci aiuta ad affrontarla con dignità.

In uno dei suoi libri, Metafisica della peste, scrive: “Il bello nasce là dove la morte è più presente.” E forse questa frase riassume tutta la sua filosofia: un tentativo di ritrovare la vita proprio dove sembra essere rimasta soltanto la fine.

Attraverso questa visione, Givone si colloca su una linea sottile che unisce Platone a Heidegger, Dostoevskij a Camus, la poesia alla filosofia.
Egli crede che il senso non nasca dal pensiero puro, ma dall’esperienza profonda della vita; e che l’arte sia il modo più umano per non arrendersi.

In definitiva, ciò che rende Givone unico è l’umiltà del suo pensiero.
Non pretende di avere ragione – anzi, in un certo senso, rifiuta i filosofi che lo fanno. Per lui, il valore del pensiero non risiede nelle risposte, ma nella capacità di suscitare contrari, di provocare il pensiero dell’altro. In un mondo che divide tutto in giusto e sbagliato, Givone ci insegna che la filosofia vive proprio nella zona grigia – là dove il nulla e il senso si incontrano.

Sergio Givone rimane così un filosofo silenzioso in un tempo rumoroso: un uomo che cerca la luce non nel cielo, ma nella profondità della parola.
E forse proprio lì, in questo sforzo di trasformare il senso in atto poetico, risiede la sua filosofia: una metafisica necessaria per il mondo moderno, un promemoria che, per essere uomini, dobbiamo avere il coraggio di domandare ancora.

Di Robert Martiko (scrittore, poeta e filosofo Albanese)

 

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