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Recovery fund bloccato e promesse disattese: è davvero colpa dei sovranisti?

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In questi ultimi giorni abbiamo assistito inermi ad alcuni dissidi tra i governi degli Stati membri dell’Unione Europea. La stragrande maggioranza dei media ha puntato il dito contro Ungheria, Polonia e Slovenia, rei di essere “Paesi sovranisti”.

É curioso pensare come, in una Repubblica Democratica dove all’articolo 1 è sancito che “la sovranità appartiene al popolo”, il concetto stesso venga vilipeso alla base a seconda della comodità narrativa.

Fuori dai canoni del globalismo, però, si è colpevoli di non assecondare alcune teorie che sono nettamente rifiutate dal popolo.

Probabilmente noi Italiani siamo stati abituati troppo a lungo ad accettare ogni decisione che è piombata sulla nostra testa, fidandoci a ragione o torto dei politici di turno. Eppure dovremmo capire che non tutti i popoli sono uguali e che nessuno è nella condizione/posizione di stabilire dove stia la ragione. 

Nel diritto di cronaca dovrebbe rientrare anche la facilità interpretativa delle notizie: invece si ha la percezione di una volontà ben precisa nell’ostacolare la comprensione del fruitore finale, l’utente/lettore.

Tralasciamo Covid, DPCM e le recenti elezioni Americane. Vediamo cosa è successo davvero all’interno dell’eurogruppo.

Le principali testate nostrane hanno sottolineato: “le frizioni sono rappresentate dai principi democratici che Bruxelles pretende siano rispettati per poter accedere ai finanziamenti. Il Parlamento Europeo non cede ai ricatti di Ungheria e Polonia”.

Fermo restando che in quei paesi non vi è una dittatura mentre in Cina sì (eppure per gli scambi commerciali non importa a nessuno del rispetto dei principi democratici), quali sono i reali problemi? L’immigrazione, in testa. E l’ideologia LGBTQI subito dopo.

I tre paesi, infatti, avrebbero tutto da perdere nel bloccare i fondi comuni. Ma non accettano che sia un gruppo politico a decidere sullo Stato di Diritto delle rispettive Nazioni. 

Come dichiarato dal premier magiaro Viktor Orban, condizionare l’erogazione dei fondi al rispetto dello Stato di diritto «trasformerebbe l’Unione Europea in una nuova Unione Sovietica».

Perché con Stato di diritto la Commissione europea non si riferisce soltanto ai temi della magistratura indipendente, della lotta alla corruzione, del pluralismo dell’informazione, del bilanciamento dei poteri e in generale della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. Intende dare vere e proprie patenti di democraticità agli Stati anche in base alla tutela dei nuovi diritti civili. Nel primo report del 30 settembre sul rispetto dello Stato di diritto nell’Ue, ad esempio, la Polonia è stata censurata per il trattamento di Ong e gruppi Lgbt.

Ursula von der Leyen ha poi parlato della necessità di definire strategie per realizzare un piano che implementi l’ideologia Lgbtqi negli ordinamenti giuridici dell’Unione e degli Stati membri. 

Come riportato dal Centro studi Livatino, «la subordinazione dei finanziamenti europei all’adeguamento degli ordinamenti degli Stati membri alle azioni contenute nel piano è grave, si tratta di una potestà che esula dai poteri conferiti all’Unione dall’art. 10 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (Tfue) e dà vita a un’interpretazione di mala fede di trattati istitutivi. L’art. 10 Tfue, infatti, deve essere letto in combinato disposto con gli art. 5 e 6 e con il più generale principio di razionalità, per cui la leva finanziaria non può essere utilizzata come strumento surrettizio per forzare la sovranità degli Stati membri in materie che esulano dalle competenze dell’Unione Europea. E tale coartazione, da parte della Commissione, appare tanto più odiosa nella misura in cui, dichiarando di applicarsi anche ai finanziamenti per l’emergenza sanitaria, discrimina apertamente i malati e le loro famiglie rispetto ad altre categorie sociali senza alcuna base razionale».

Ungheria e Polonia non hanno tutti i torti a protestare contro questa nuova iniziativa. Soprattutto, non si può dimenticare che sono stati i paesi del Nord (Olanda, Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia) a insistere sull’inserimento della clausola dello Stato di diritto proprio per scatenare la reazione di Budapest e Varsavia e così affossare, o almeno rimandare, l’odiato Recovery Fund.

Se i governi possono trovare un’intesa sul meccanismo di condizionalità sullo Stato di diritto, magari annacquandolo tanto da renderlo ininfluente, il Recovery Fund – una volta approvato dal Consiglio europeo – dovrà essere ratificato dai Parlamenti nazionali.

In Olanda il 17 marzo ci sono le elezioni politiche, la ratifica slitterà almeno ad aprile. Danimarca e Svezia sono rette da governi di minoranza che non controllano Parlamenti molto sospettosi verso il Recovery Fund. In Finlandia non è molto diverso. È dunque anche il tentativo di rassicurazione dei parlamentari dei paesi nordici che spinge la Commissione ad essere troppo pignola sui prerequisiti dei piani nazionali da presentare. Se i membri dell’UE riusciranno alla fine a raggiungere un faticoso accordo, è impossibile che le risorse arrivino prima dell’estate 2021.

Però sorge spontanea una domanda: ma la risposta europea alla crisi causata dalla pandemia a partire da marzo non era «necessaria e urgente» (Giuseppe Conte, aprile 2020), «doverosa e urgente» (Angela Merkel giugno 2020), «nobile e urgente» (Ursula von der Leyen, settembre 2020)?

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