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Conte si è battuto strenuamente per il recovery fund: ma è stato davvero un successo?

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“Siamo in una fase di stallo: si sta rivelando molto complicato, più complicato del previsto. Sono tante le questioni su cui stiamo ancora discutendo che non riusciamo a sciogliere”

Inizialmente, il Premier Giuseppe Conte era visibilmente preoccupato.

Confermando, quindi, le perplessità sullo strumento del Recovery Fund, emergeva un quadro abbastanza chiaro: nessun sussidio, solo prestiti agli Stati. Dai potenziali 325 miliardi ai soli 155. Una sconfitta di Conte su tutta la linea politica.

Oltre ai muri eretti dai paesi del Nord e dal blocco di Visegrad (Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria) e l’intransigenza dell’Olanda.

Germania e Francia tacevano mentre la Spagna continuava a premere per impedire la figura di uno stato-mostro che controlli le spese di un altro stato membro. Il diavolo Orbàn (come dipinto da Repubblica ed Il Fatto Quotidiano) appoggiava in pieno la linea politica Italiana. Quindi Conte sarebbe amico dei nazisti? Ora no, perché alleato del PD… ma se ci fosse stato un altro partito al governo…

Ad ogni modo, va riconosciuta al Premier la tenacia con la quale si è battuto strenuamente per portare a casa il risultato: lampante dimostrazione di come il concetto di solidarietà sia estremamente marginale quando si tratta di dirigere l’acqua verso il proprio mulino.

Abbiamo ottenuto 209 miliardi. A tanto ammontano le somme che Next Generation Eu riserverà all’Italia. Sui 750 miliardi complessivi del piano fanno quasi il 28%: non una quota indifferente, tanto più che nella proposta originale della Commissione non si andava oltre i 170 miliardi, che dunque lievitano di quasi 40.

Una pioggia di denaro, verrebbe da dire. Ma… è realmente così?

Banale constatazione: dei 209 miliardi, 127 sono pensati come prestiti. Più del 60% delle somme arriveranno sotto forma di finanziamenti, i quali devono essere restituiti. A tassi bassi e magari su una prospettiva di lungo termine, ma la contabilità non mente: tanto arriva, tanto andrà restituito.

Il resto della provvista stanziata entra nel conto delle risorse “a fondo perduto”. Anche se di fondo perduto c’è veramente poco. Il motivo: l’UE non dispone di risorse proprie immediatamente destinabili allo scopo, né – per precisa disposizione dei trattati – controlla una banca centrale che possa finanziarla al bisogno.

Bruxelles dovrà così rivolgersi al mercato, emettendo titoli. Comunque li si consideri, una cosa è certa: prima o dopo andranno rimborsati.

Sarà l’unico dazio da pagare?
Certo che no, perché le risorse a finto fondo perduto verranno anche collegate al rispetto di tutta una serie di condizioni.

L’accesso al Recovery Fund sarà infatti vincolato alle riforme che uno Stato membro si impegnerà a porre in essere, in special modo “per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese”.

Guardiamole bene, queste raccomandazioni specifiche.

Le ultime prima della pandemia (risalenti quindi al maggio 2019) erano abbastanza chiare e prescrivevano per l’Italia la necessità, fra le altre cose, di “assicurare una riduzione in termini nominali della spesa pubblica primaria netta dello 0,1% nel 2020″, di “utilizzare entrate straordinarie per accelerare la riduzione del rapporto debito pubblico/Pil” e infine di non tralasciare un ulteriore giro di vite sul sistema previdenziale “al fine di ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia nella spesa pubblica”.

Non è neppure detto che tutto questo sia sufficiente. La Commissione, una volta ricevuto il piano delle riforme, avrà due mesi per esprimersi: un giudizio però potrà anche essere espresso dagli altri Stati membri che, qualora riuscissero a mettere insieme una maggioranza qualificata, potrebbero bocciarlo. Non un potere di veto, ma un freno d’emergenza sia pur depotenziato: non solo ci prestano i nostri soldi (versiamo 5miliardi di euro l’anno) in clamoroso ritardo (ricordiamoci che arriveranno nella primavera 2021), ma ci dicono pure come dobbiamo spenderli.

Ma allora come mai Conte ed il PD hanno fatto credere ai cittadini che non c’erano altre vite percorribili, festeggiando di fatto la vittoria dei “frugali”?

Perché in politica conta più la propaganda che l’efficacia delle azioni. Infatti, per evitare quattro giorni di trattative, poteva bastare potenziare l’esistente facendo quello che il resto del mondo sta facendo da mesi.

Ovvero la ‘monetizzazione del debito’ da parte della banca centrale, strada in parte seguita dalla stessa Bce attraverso il piano Pepp, potenziato con oltre 600 miliardi aggiuntivi non più tardi di un mese fa. Sarebbe stata una forma di finanziamento agli Stati diretta e senza condizioni a costo praticamente zero, dato che gli acquisti di titoli di Stato sono condotti in larghissima misura (80%) dalle banche centrali nazionali che, a consuntivo, girano poi ai rispettivi governi i proventi (gli interessi) della gestione dei portafogli così costituiti. Il proverbiale uovo di Colombo, ma non per quell’architettura ormai decotta che si chiama eurozona. E che il governo italiano, con Roberto Gualtieri in testa, continua a difendere. A farne le spese, dato che arriverà la “potenza di fuoco” in salsa europea e quindi non ci sarà bisogno di allargare i cordoni della borsa, sono purtroppo i nostri imprenditori e i nostri lavoratori in cassa integrazione.

Articolo a cura di Giomaria Langella

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